«C’è un’antica profezia, nella Kabbalah ebraica,
la quale afferma che il Regno di Dio
sarà stabilito nell’umanità quando verrà l’uomo
che possiede il potere di morire e di ritornare,
capace cioè di riprendere il proprio corpo
dopo la morte. È fondamentale conoscere
che cos’è la morte se la si vuole vincere.»
Sri Aurobindo (3 gennaio 1939)
È di questi giorni la divulgazione ufficiale della scoperta, effettuata da un gruppo di ricercatori della israeliana Bar-Ilan University, di un gene in grado di prolungare la vita di circa vent’anni. Il gene, chiamato SIRT6, potrebbe essere considerato come la versione moderna del mitico elisir dell’immortalità tanto perseguito nel corso dei secoli.
«Questo gene è determinante per la salute e, se sarà possibile regolarne il giusto assorbimento fisiologico, potremo rendere più lunga la vita dell’essere umano», ha dichiarato il biologo Haim Cohen, direttore del team scientifico responsabile della scoperta.
Data la rilevanza della notizia, vorremmo partire proprio da qui per offrire una serie di riflessioni e di precisazioni che, ci auguriamo, possano stimolare analisi assai più approfondite.
Anzitutto, riteniamo importante non confondere la vita materiale con l’esistenza di un essere individuato. Di per sé, prolungare la vita fisica, fosse pure all’infinito, non avrebbe molto senso se essa non si rivelasse degna di essere vissuta, ovvero finché l’essere umano si riduce a essere schiavo della propria animalità e di tutte quelle pulsioni ferine che lo spingono a depredare e a distruggere il pianeta che lo ospita. Per dirla in una parola, finché la coscienza umana resta preda della separatività dualista, prolungare la sua vita corporea può costituire la peggiore condanna possibile. E, a ben vedere, nessun Matusalemme vorrebbe protrarre la propria vita all’infinito… Nell’antica Grecia, esiste il mito assai significativo della Sibilla Cumana che, costretta a vivere senza limite, quando gli venne chiesto cosa maggiormente desiderasse, rispose: «Morire!».
Occorre in secondo luogo — o, meglio, parallelamente — riflettere sulla reale possibilità di prolungare la vita all’infinito (o, per lo meno, in modo considerevole) mediante mezzi esclusivamente scientifici. Il dominio della scienza è circoscritto a ciò che pertiene al campo puramente fisico, all’universo materiale osservabile mediante i nostri sensi fisici o ai suoi prolungamenti tecnologici (telescopi, microscopi, ciclotroni…). Ma esistono anche altri dominî, che esulano dalla portata della scienza e che non per questo si rivelano meno importanti. Tutt’altro. Sono quelli che potremmo definire il dominio animico e lo spirituale. In questa prospettiva, più globale e comprensiva, è solo la realizzazione concreta e sperimentale della nostra vera anima — immortale, senza nascita e senza morte — che può conferire il vero senso, per un essere senziente incarnato in un corpo fisico, alla volontà di rendere l’involucro materiale un puro specchio riflettente l’eternità interiore. Solo lo Spirito Supremo — eterno e increato — può modellare la Materia a Sua immagine, coronando il grande sogno dell’uomo, tramandato da molte tra le più antiche e feconde tradizioni, il quale si esplica nella manifestazione di un nuovo Cielo e di una nuova Terra, finalmente trasfigurati dalla radiosa Beatitudine dell’Assoluto, del Divino.
È questo, in estrema sintesi, il “Lavoro della Trasformazione della Terra” che Mère e Sri Aurobindo hanno intrapreso nel cuore del XX secolo, vivendo nell’ombra, al riparo da onori o riconoscimenti, come si addice a qualunque serio pioniere (entrambi rifiutarono — rispettivamente nel 1943 e nel 1962 — il Premio Nobel, preferendo sottrarsi alla notorietà internazionale per poter condurre indisturbati il Lavoro). Ancora oggi, a quasi quarant’anni dalla scomparsa di Lei e a più di sessanta dalla scomparsa di Lui, pochissimi conoscono le reali proporzioni dell’Opera intrapresa da questi due grandi avventurieri della coscienza.
Sri Aurobindo lo si etichetta perfino come uno “hindu”, solo perché è nato in India e a dispetto delle sue numerose dichiarazioni, esplicite al punto di non essere suscettibili del sia pur minimo fraintendimento, di non appartenere (e di non essere mai appartenuto) ad alcuna tradizione, religiosa, etnica o altra. Il fatto che il proprio nonno materno fosse il celebratissimo Rajnarayan Bose, insignito quando ancora era in vita del titolo di Rishi (‘profeta’, ‘veggente’), non deve indurre a erronee supposizioni. Sri Aurobindo è sempre stato ben oltre il cosiddetto induismo e ogni altro ‘ismo’. E la compagna di Sri Aurobindo, Mère, in modo ancora più deformante, la si indica per lo più come una sua “discepola” e, ancora una volta, ciò appare in netto contrasto con le affermazioni dello stesso Sri Aurobindo, tese a ribadire il rapporto assolutamente paritario fra questi due esseri, che incarnano i due poli — maschile e femminile — di una medesima Coscienza.
Tornando all’argomento specifico del presente articolo, esiste un documento, in particolare — L’Agenda di Mère (13 volumi per un totale di circa cinquemila pagine) —, che mette in luce le reali proporzioni di un Lavoro condotto fino al livello cellulare, allo scopo di stanare e vincere quella che Mère chiamava una “cattiva abitudine del corpo”: la morte. È forse il caso di ricordare che Mère nacque a Parigi da madre egiziana e da padre ebreo (originario di Edirne, in Tracia); il suo cognome, Alfassa, rivela una discendenza antica… Uno dei suoi primi avi, Isak Alfassi, ricordato come uno dei più importanti rabbini della storia, vissuto nell’XI secolo, si trasferì in Spagna con la famiglia, sebbene i suoi successori, durante il XIV e il XV secolo, furono costretti a riparare in Turchia a causa delle sanguinarie repressioni perpetrate dalla chiesa cattolica a danno degli ebrei residenti in Europa. Ma anche Mère, al pari del suo compagno Sri Aurobindo, non si riconosceva in alcuna tradizione e, quindi, sarebbe ugualmente assurdo e fuorviante tentare di porla all’interno della tradizione ebraica, come di qualunque altra tradizione.
Mère e Sri Aurobindo erano interessati all’intera specie umana, senza alcuna distinzione di nazionalità, di etnia, di casta, di religione o altro. E avviarono l’Opera della trasformazione della Materia per tutta quanta l’umanità o, meglio, per l’intera coscienza terrestre che aspira alla venuta del Regno dei Cieli sulla Terra.
Al tempo stesso, occorre porre chiaramente in rilievo quanto Mère e Sri Aurobindo abbiano sempre categoricamente avversato quel “sincretismo” tanto in voga presso certi ambienti spiritualoidi (new-age e dintorni): l’unità nella diversità è sempre stato il motto dichiarato di Mère e Sri Aurobindo — non l’uniformità che appiattisce tutto (per lo più verso il basso) su uno stampo rigido e univoco, distruttore delle diversità e delle minoranze, bensì una unità multiforme e feconda, capace di abbracciare, preservare e valorizzare tutte le diversità, viste come apporti imprescindibili, di infinita ricchezza.
In questa dimensione unitaria, onnicomprensiva e universale, la vittoria sulla morte figura come la conseguenza ultima e inevitabile di un processo di completa palingenesi spirituale che miri a una trasformazione del piano di coscienza che sta a fondamento del divenire cosmico, vale a dire il piano materiale, all’interno del Disegno divino nel mondo. È quel medesimo Essere Eterno che, calando una parte di Sé nell’eterno Divenire, intende edificare una dimora fisica che possa ospitarLo e manifestarLo in modo sempre più adeguato. Ma finché gli oscuri poteri della divisione e della menzogna saranno all’opera in questo nostro universo materiale, nessuna reale trasformazione potrà essere duratura e completa. Soltanto una discesa diretta del Divino può segnare la Vittoria conclusiva e trionfale sul potere della morte — questo “distruttore delle creature”, come Sri Aurobindo talvolta lo indica.
Ma è davvero possibile una simile trasformazione?
Noi tutti sappiamo che la scienza ha ormai dimostrato (mediante complicatissimi calcoli matematici) la ciclicità dell’universo, ovvero la sua continua alternanza fra stati di espansione e stati di contrazione, contraddistinti dai fenomeni opposti noti come ‘big bang’ e ‘big crunch’. Ebbene, nella visione di Mère e Sri Aurobindo, il gioco cosmico procede in piena attività (pur restando sempre globalmente se stesso) verso una formula armonica di perfezione progressiva. E noi, oggi, abbiamo la ventura di trovarci precisamente nel momento in cui il potere di distruzione può cessare di costituire un imperativo categorico e, di conseguenza, l’universo può continuare la sua corsa evolutiva senza avere più bisogno di passare attraverso alcuna dissoluzione.
E non si tratta certo di un articolo di fede da accettare a priori, ma di esperienza vissuta, che chiunque può attestare con la propria personale sperimentazione diretta.
Peraltro, anche le soluzioni scientifiche ipotizzate da Alexander Friedmann (lo scienziato che per primo presentò a Einstein la teoria della ciclicità dell’universo), non costringono l’universo a oscillare eternamente tra fasi alterne di espansione e contrazione: esse ammettono la possibilità di un universo che continui a espandersi all’infinito. E, dopo la dimostrazione di Edwin Hubble che l’universo sta in realtà espandendosi, il mondo scientifico ha effettuato una serie di approfondimenti in questo specifico ambito, fino alle più recenti scoperte del fisico nucleare Ilya Prygogine (Premio Nobel 1977) e alle ricerche tuttora in corso. Ci limitiamo ad accennare, a tal proposito, l’ipotesi formulata dallo scienziato Dragan Slavkov Hajdukovic che, rintracciando — presso il Cern di Ginevra nel quale opera — il meccanismo che converte la materia in antimateria e viceversa, postula le due opposte fasi della ciclicità dell’universo come il prodotto di un eterno alternarsi della dominazione della materia o dell’antimateria.
Ma per far sì che queste elevatissime speculazioni possano assumere una dimensione di concretezza per l’evoluzione umana e per ciascuno di noi, entrando concretamente nel novero del possibile, Mère e Sri Aurobindo constatano la necessità dell’intervento di uno specifico Potere Divino, non sottomesso all’ignoranza separatrice. Ed è proprio questa “Coscienza-di-Verità” che — secondo l’esperienza diretta di Mère e Sri Aurobindo — diventando operativa nell’essere umano, è in grado di instaurare un equilibrio progressivo in cui la quantità di materia presente nell’universo si rivela essere in realtà una quantità di coscienza, la cui contrazione o espansione viene regolata direttamente dalla Coscienza-Forza creatrice di tutto. L’universo, pur rimanendo un fenomeno di molteplicità, svela in tal modo l’unità essenziale di tutte le cose. L’eterno contrasto filosofico tra ‘essere’ e ‘divenire’, quindi, si trova risolto, non in aride speculazioni metafisiche, ma nella realtà materiale!
L’uomo, in buona sostanza, presa coscienza del reale stato delle cose, può inserirsi liberamente nel processo di trasformazione, permettendo che venga continuato al di là dei suoi attuali limiti quell’espressione di unione creatrice per la quale egli, in simbiosi con l’universo e, soprattutto, con l’Energia Divina che informa l’intero cosmo, si realizza in un essere che lo trascende — un essere non più mentale e mortale, ma SOPRAmentale e divino, libero dalla morte.
D’altronde, anche per la scienza, ormai, non è più possibile pensare che nell’uomo finisca il processo crescente dell’evoluzione: il processo evolutivo è destinato a continuare ben oltre questo essere limitato e mortale qual è l’uomo attuale.
Mère, in particolare, annota minuziosamente — nella sua Agenda — le tappe di una sperimentazione durata almeno un ventennio e compiuta sulle cellule del proprio corpo fisico, alla ricerca di quel principio che è alla base del decadimento del nostro organismo fisico. Mère ha compiuto l’improba traversata di tutte le stratificazioni, tutte quelle gravose sedimentazioni che, nel corso dell’evoluzione, hanno ricoperto la cellula vivente, alterandone il suo codice primario che, come la citologia comincia a scoprire, è libero da ogni legge costituita (compresa la legge della morte)! Mère, in estrema sintesi, è arrivata alla cellula pura, così come essa è realmente, aprendo un varco nella coscienza fisica terrestre.
La scienza, infatti, ha ormai dimostrato che non si può intervenire su un singolo punto della materia senza coinvolgere l’intera materia universale. Appartiene al 1982 la scoperta — effettuata da un gruppo di ricercatori guidato dal fisico Alain Aspect — secondo cui, in determinate circostanze, le particelle subatomiche sono in grado di comunicare direttamente e istantaneamente fra loro indipendentemente dalla distanza che le separa… Che si trovino a dieci centimetri l’una dall’altra, o a dieci milioni di anni luce di distanza, esse possono comunicare fra loro in tempo reale. E lo scienziato David Bohm ritiene che questa scoperta mostri l’intero universo come un dettagliatissimo e gigantesco ologramma.
Tutto è correlato nell’universo; perché, a ben vedere, ogni elemento è parte di un unico grande Tutto che sfugge alla nostra comprensione mentale, ma che può essere vissuto mediante l’esperienza diretta.
In una simile visione globale, la transizione verso una specie più evoluta si prefigura come il passaggio da uno stato di ignoranza (vale a dire di coscienza separativa asservita alle malattie, alla sofferenza, alla senescenza e alla morte) a uno stato di conoscenza, di coscienza-di-verità unitaria e sopramentale, di totale libertà da qualunque mortale asservimento. È il coronamento della Gioia e dell’Amore divini nel seno stesso del nostro universo materiale!
Pertanto, è la transizione verso una specie nuova, quella che Mère ha vissuto nel proprio corpo. La transizione verso il prossimo stadio evolutivo, verso il “dopo-uomo”, così come il rettile rappresenta il “dopo-pesce”. Ma, stavolta, per l’appunto, si tratta della transizione verso uno stato di pienezza, libero da tutte le vecchie leggi di natura. Uno stato verso il quale ognuno di noi è chiamato a orientarsi, collaborando attivamente con l’intento di questa stessa Coscienza-Forza Divina che ha messo in moto l’intero divenire universale, da sempre e per sempre.
Mère, come si cennava, ha attraversato concretamente e sperimentalmente le varie sovrapposizioni che, come una trama avvinghiante e mortale, nel corso dell’evoluzione hanno finito per ricoprire la pura cellula materiale con il loro fatale ipnotismo. È quello che Mère stessa chiama il “cammino della discesa”. Lei, infatti, ha potuto constatare, dopo lunghi anni di discesa metodica e graduale, che ben al di sotto della mente razionale — il pensiero riflessivo e discorsivo, evidentemente, è il primo ostacolo che ci impedisce di entrare in contatto con l’attività cellulare diretta, ragion per cui occorre avvolgerlo nel silenzio e scendere più in profondità —, esiste una mente emotiva, responsabile della nostra reattività nervosa e di tutte le nostre avversioni e idiosincrasie; occorre perciò pacificare questo ulteriore strato per scoprire, ancora più in profondità, una mente sensoriale, sede delle nostre percezioni fisiche (di fame e di sete, di freddo e di caldo, eccetera). Noi, a ben vedere, non conosciamo nulla della materia per ciò che essa è realmente: la ri-conosciamo solo indirettamente, per mezzo di una serie di informazioni che, proprio tramite i sensi, pervengono al nostro cervello grazie all’attività dei neuroni. Ma Mère, lo abbiamo visto, voleva entrare in contatto con la materia direttamente, senza alcuna intermediazione più o meno deformante. Perciò, oltre la mente sensoriale, in questo viaggio alla ricerca della cellula pura e priva di deformazioni, ecco emergere una ulteriore stratificazione: la “mente fisica”, responsabile di tutte le nostre paure: di ammalarci, di invecchiare, di morire… Siamo ormai vicinissimi alla cellula pura, la cellula qual è davvero, ma non siamo ancora arrivati alla sua essenza più autentica: oltre la mente fisica, esiste infatti una vera e propria “mente delle cellule”, che contiene la chiave della trasformazione del corpo. Ecco come Sri Aurobindo, in uno stralcio epistolare degli anni Trenta, descrive questa mente cellulare: «Esiste anche una mente oscura, una mente del corpo, anzi delle cellule, delle molecole, dei corpuscoli. Il materialista tedesco Haeckel ha parlato da qualche parte di una volontà dell’atomo, mentre la scienza piú recente, davanti alle imprevedibili variazioni individuali dell’elettrone, sta per accorgersi che quella di Haeckel non è una metafora, ma l’ombra proiettata da una segreta realtà. Questa mente corporea è del tutto reale, in senso tangibile: per la sua oscurità, il suo ostinato e meccanico attaccamento ai movimenti del passato, la sua facilità a dimenticare, il suo rifiuto di qualsiasi novità, è uno dei maggiori ostacoli all’infusione nel corpo della forza sopramentale e alla trasformazione del modo stesso di funzionare del corpo. Ma una volta convertita davvero, tale mente corporea sarà uno dei piú preziosi strumenti per rendere stabili la luce e la forza sopramentali nella Natura materiale».
Prima di procedere oltre, e di avviarci lentamente alla conclusione, occorre riflettere sul modo di operare dell’evoluzione, per evitare fraintendimenti. Madre Natura non fa nulla a casaccio e, così, viene da chiedersi perché mai è stato necessario accumulare tutti questi strati che, uno dopo l’altro, hanno soffocato la potenziale immortalità della cellula vivente? Ebbene, per limitarsi a un esempio che, ci auguriamo, possa risultare paradigmatico, proviamo a pensare cosa avrebbe prodotto l’evoluzione senza tutte queste stratificazioni successive… La cellula organica, privata della mente fisica, non ha alcuna paura. Se la mente fisica non fosse mai intervenuta con il suo soffocante viluppo di timori e di ritrazioni, registrando e catalogando con la sua ossessiva precisione tutte le minacce derivate dall’impatto con l’ambiente circostante, nessuna autentica evoluzione sarebbe mai stata possibile. Limitiamoci a esaminare la paura del fuoco: un bambino piccolo avvicina la sua manina a una fiamma, si brucia e si mette a piangere. Questo ricordo viene registrato dalla mente fisica e, la prossima volta che si avvicinerà al fuoco, sarà la mente fisica a ricordargli la sensazione di dolore e di pericolo. E il bambino, in tal modo, utilizzerà l’esperienza di quella sua prima bruciatura per tenersi a debita distanza dalla fiamma. Senza mente fisica, noi continueremmo a ripetere le medesime esperienze, pagandone ogni volta lo scotto! Ma allora, come è possibile vivere, per un corpo fisico costituito da miliardi di cellule, senza l’intervento provvidenziale (per quanto assordante e ossessivo) della mente fisica? Ebbene, è qui che entra in campo quello che Mère chiama “il transfert del potere”, ovvero il passaggio dal determinismo automatico della natura a un determinismo divino, in cui tutti i poteri e tutte le operazioni cosiddette “naturali” passano dal controllo indiretto della natura incosciente e subcosciente, al controllo diretto della Coscienza divina nell’individuo. Il passaggio dall’uomo all’oltreuomo è possibile solo al culmine dell’evoluzione umana, non al suo primitivo esordio. L’evoluzione, come al solito, deve percorrere tutti i gradi intermedi, sviluppare tutti quegli elementi che la nostra mente analitica tende a considerare come opposti (e che, alla luce della Coscienza, sono solo apparentemente opposti — contraria sunt complementa, ci ricordano i nostri avi), per poi giungere finalmente all’Armonia conclusiva, sopramentale e divina.
Può essere interessante, in questa sia pur rapida e complessiva disamina dell’attività cellulare (anche per arrivare a meglio comprendere il senso dell’affermazione di chiusura della citazione di Sri Aurobindo sulla chiave di volta della trasformazione grazie alla ripetitività della mente cellulare), notare come virus e batteri, in realtà, siano manifestazioni fisiche di esseri e forze (o ‘esseri-forze’) del soprafisico. Per citare direttamente Mère: «un microbo è solo la materializzazione di una vibrazione o di una volontà proveniente da un piano soprafisico… La Materia progredisce, diventa sempre più ricettiva alla volontà superiore. E quanto per la scienza costituisce i microbi, viene percepito — se si giunge alla radice delle cose — semplicemente come una modalità vibratoria; e tale modalità vibratoria risulta essere la traduzione materiale di una volontà superiore. Se potete portare questa forza, o questa volontà, questo potere, questa vibrazione (chiamatela come preferite) entro precise circostanze date, non solo agiranno in voi, ma eserciteranno un contagio intorno a voi.» (14.03.1951).
Contagio che può essere benefico o portatore di malattie, come ben sappiamo. I microbi e i germi che stanno dietro le malattie, infatti, sono la materializzazione di esseri-forze ‘ostili’ (contrari cioè al movimento evolutivo della coscienza), appartenenti ai piani del fisico sottile e del vitale inferiore (sempre nell’accezione terminologica di Mère e Sri Aurobindo).
Nella tradizione indiana questi esseri sono denominati pisaca e si tenta — soprattutto nell’Atharva-Veda e nel Tantra — di scacciarli con una serie di vibrazioni affermative (i celebri ‘mantra’) che possano ostacolarli, bloccarli, respingerli dall’atmosfera mentale e fisica. Nella tradizione ebraica, similmente, esistono numerose indicazioni su queste forze negative; tutta la tradizione kabalistica è fondata sulla mistica del linguaggio: la pronuncia di determinati passaggi della Torah, la preghiera vocale, i nigunim (mantra vocali senza parole) e, soprattutto, il canto, rappresentano strumenti importantissimi di guarigione, in quanto la forza delle vibrazioni — come la scienza sta scoprendo — esercita un effetto continuo e concreto sulla materia del nostro organismo.
Concetti simili esistono presso molte altre antiche tradizioni, dalla tibetana, alle africane, alle mesoamericane e in molte altre ancora.
Sri Aurobindo, che era interessato ai legami intimi fra le antiche lingue (come si sa, conosceva alla perfezione il greco, il latino e il sanscrito), non solo per le intime connessioni fra le vibrazioni seminali dei suoni e le armonie o disarmonie dell’organismo somatico, ma anche per motivi più prettamente linguistici e poetici (la vera poesia è essa stessa un potente mantra in grado di riprodurre in noi precisi stati di coscienza), negli anni Venti aveva iniziato a studiare per proprio conto l’ebraico, convinto che anche il sanscrito e l’ebraico (e non solo il sanscrito, il greco e il latino, come all’epoca era già stato sufficientemente dimostrato) derivassero da una radice comune. E, guarda caso, alcuni linguisti contemporanei iniziano a prendere in considerazione molto seriamente una simile ipotesi.
Secondo la Kabbalah, tutte le lingue deriverebbero dall’ebraico, considerata la Lingua Santa Una che si è poi ramificata nelle varie lingue del mondo. La leggenda della Torre di Babele reca qualche traccia di questa credenza. Una analoga convinzione è presente presso gli hindu, secondo cui il sanscrito sarebbe la prima lingua umana da cui si svilupparono tutte le altre. Sri Aurobindo, in questo specifico ambito, riteneva assai probabile l’esistenza di una proto-lingua, andata perduta, di cui sanscrito, ebraico e tamil rappresenterebbero i primi e più diretti derivati. Siamo dunque in presenza di una ‘super-famiglia’, che alcuni linguisti contemporanei chiamano “nostratica”. Fu il linguista Holger Pedersen a utilizzare per primo il termine “nostrasiano”, sebbene oggi venga utilizzato in senso assai più allargato e si riferisca a una lingua-madre che sarebbe precedente alle lingue europee, asiatiche e africane e che includerebbe le famiglie indoeuropee, dravidiche, caucasiche meridionali, altaiche, sumera, afroasiatiche. Anche il linguista Joseph Greenberg ha proposto una superfamiglia simile, che ha chiamato “euroasiatica”, nella quale ha incluso pure le lingue amerinde parlate nel continente americano.
Come che sia, per tornare ancora una volta al nostro argomento (il lettore ci perdonerà certamente queste continue digressioni, ma l’argomento è troppo ponderoso e complesso e proprio non vogliamo rischiare di cadere nell’errore gravissimo del semplicismo, a costo di apparire tortuosi e pretenziosi), l’uomo, in definitiva, può scegliere di diventare il collaboratore cosciente della trasformazione della propria coscienza — e della coscienza terrestre… Le due, come abbiamo visto, si rivelano essere una sola entità, come è ogni cosa.
E tuttavia, per vincere la morte occorre anzitutto conoscere la morte. Non si domina ciò che non si conosce. E la morte, una volta conosciuta, si rivela essere il tessuto stesso della nostra attuale vita; questo significa che finché non conosceremo adeguatamente la morte, non potremo nemmeno affermare di conoscere compiutamente la vita. Mentre, conoscendo il binomio vita-morte, possiamo arrivare a padroneggiarlo e a trascenderlo in una Sovra-vita che costituirà per l’appunto il peculiare appannaggio di una specie postumana, la quale dovrà nascere dall’attuale specie umana, esattamente come l’anfibio si è evoluto dal pesce, un bel giorno, su una riva soleggiata di un mare in prosciugamento, all’alba del Terziario. Il soffocamento della vecchia specie, ora come allora, viene a costituire il primo indizio della nascita di una specie nuova.
Il mondo intero è ormai un campo di evoluzione globale, un immenso oceano in progressivo prosciugamento, in cui le risorse scarseggiano sempre più e sono in via di esaurimento per spingerci a una nuova respirazione, un nuovo modo d’essere e di vivere nella materia, nel proprio corpo fisico, per poter giungere al compimento preconizzato da Giobbe: Mi basarì ehezè elokha («dalla mia carne vedrò Dio»).
Concludiamo con alcuni brevi stralci dell’Agenda di Mère, nei quali si attesta sperimentalmente questo antico binomio vita-morte e la sua soluzione in una coscienza ALTRA e che, con compiuta circolarità, ci ricollegano alla citazione di Sri Aurobindo offerta in apertura…
«Ognuna di quelle che gli uomini chiamano “vite” (vale a dire ogni volta che una parte di materia si organizza in quel che chiamiamo un corpo), serve per arrivare alla massima possibilità di manifestare (di ricevere e di manifestare) la coscienza. E quando la Materia sarà abbastanza duttile da potersi trasformare sotto l’azione della coscienza — una trasformazione costante — non ci sarà più bisogno di abbandonare un qualcosa che si trova in condizioni disastrate. Ecco come sarà possibile continuare a protrarre a volontà, per la necessità della trasformazione, l’esistenza di una forma che era passeggera.» (21 ottobre 1967). «L’accentramento consueto della Natura (prodotto dalla Natura) è un accentramento meccanico, sottoposto a una quantità di leggi meccaniche, ma il primo passo verso l’immortalità consiste nel sostituire l’accentramento meccanico con un accentramento volontario, che è dovuto alla Presenza interiore, la Presenza Divina, la sua volontà a tenere accentrate le cellule del corpo.» (17 dicembre 1969). «Non è che la morte scompare (la morte come noi la concepiamo, in rapporto alla vita come noi la conosciamo): no, non è affatto così. Stanno mutando TUTTE E DUE in qualcosa che ancora non conosciamo, che appare estremamente pericoloso e, al tempo stesso, assolutamente stupendo. Si tratta della coscienza vera dell’immortalità.» (12 luglio 1972).
Mère, dunque, ha condotto questa difficile transizione per decenni, all’insaputa di tutti, senza alcun desiderio di riconoscimento o di glorificazione personale (non era certo la propria immortalità fisica a interessarle!), avvalendosi unicamente, quale ausilio esterno, di uno specifico mantra che aveva ricevuto per vie interiori (al fine di infondere nella mente cellulare la vibrazione dello stato di non-morte), fino all’ultimo grido, quello estremo: «È come per mostrarci che, per vincere la morte, bisogna essere pronti a passare attraverso la morte.» (29 luglio 1972).
Alla fine del Lavoro di Trasformazione della Materia, probabilmente, la promessa del profeta Isaia si rivelerà davvero preveggente: M’chay-yeh Nay-seem («i morti risorgeranno») — anche se, come ricorda il bretone Satprem (colui che fu testimone diretto della sperimentazione di Mère e, ancor prima, purtroppo, degli orrori di Buchenwald e di Mauthausen), siamo noi quei morti che devono risorgere dalle tombe di una vita fasulla, murati vivi in una schiavitù globale!
© 29 marzo 2012
Lascia un commento
Devi essere connesso per inviare un commento.