Da 2000 anni un frammento di muro è il luogo più sacro della religione ebraica: il Kotel, soprannominato anche Muro delle Lamentazioni, è l’emblema della nostra umana cecità di fronte alla Divinità che si trova oltre tutte le nostre capacità cognitive. Parafrasando il versetto del Cantico dei Cantici in cui si dice che l’Amato “sta dietro il nostro muro”, possiamo dire che Dio si trova al di là di tutti i nostri confini e delle nostre barriere.
Sembra quasi una beffa storica che un popolo che più volte è stato chiuso dentro le mura di ghetti e campi di sterminio, si ritrovi ancora oggi ad avere un muro come realtà rappresentativa: nell’immaginario collettivo contemporaneo il muro associato al popolo ebraico in Israele è la Barriera Protettrice che si estende su un confine di oltre 700 km. Questo muro per gli israeliani costituisce un’efficace barriera di difesa dalle infiltrazioni di terroristi che hanno provocato innumerevoli attentati contro la popolazione civile israeliana. Per i palestinesi invece questo è il muro della vergogna e dell’apartheid. Secondo la Corte Internazionale di Giustizia questo muro è illegale e, secondo i dati forniti dall’Ong israeliana B’Tselem, si erge per l’85% su territorio palestinese.
Quel muro non è nient’altro che la materializzazione dei nostri muri mentali.
Alcune settimane fa, con un gruppetto di amici italiani che mi hanno chiesto di far loro da guida, sono stata a Betlehem.
Appena giunti al check point della frontiera che divide il territorio israeliano da quello palestinese -separati dall’alto muro della Barriera difensiva- troviamo, come in tutte le zone gestite dall’Autorità Palestinese, un grosso cartello con su scritto che è proibito l’accesso ai cittadini israeliani. Chiedo alle soldatesse di guardia se posso entrare ugualmente insieme al gruppo e mi rispondono che è a mio rischio e pericolo. Avvolgo il mio foulard sul capo in maniera da dare meno nell’occhio (poiché il modo che ho di annodarlo è quello tipico delle donne ebree religiose e come tale diventa un distintivo che rischierebbe di destare troppo l’attenzione) ed entro con i miei amici a bordo di un taxi palestinese di fortuna. Confesso che all’istante ho provato una sensazione di oppressione ed angoscia nella cittadina palestinese circondata da queste alte mura di cemento armato. Ho capito immediatamente cosa intendono i palestinesi per “prigione a cielo aperto”.
A me artista la cosa che ha più colpito è la mole impressionante di graffiti dipinti lungo tutta la superficie del muro. Quella terribile ed angosciante barriera alta 8 metri che chiude l’orizzonte agli abitanti di Betlemme è diventata la superficie pittorica dove artisti provenienti da ogni parte del mondo si dilettano ad esprimere la loro opinione politica sul conflitto. Troviamo graffiti di artisti rinomati come Blu, Ericailcane, Sam3 e soprattutto quelli realizzati dal grandeBanksy, che sono autentici capolavori.Sebbene di primo acchito ne sia rimasta entusiasta, devo confessare che allo stesso tempo non ho potuto non avvertire contemporaneamente una certa “stonatura” accompagnata ad un profondo disagio. Per me -artista italiana ed israeliana, di formazione artistica europea che, allo stesso tempo, vive da 14 anni in Medio Oriente- era di una evidenza imbarazzante che la maggior parte di quei graffiti sul muro fossero stati dipinti da artisti venuti dall’estero e non da artisti palestinesi. Sì, stona quel pacifismo europeo e quel tocco di romanticismo melenso tipicamente occidentale che manca alla gente di queste parti. Mi sono detta: si vede che chi ha pensato e realizzato questi murales vive una bella e confortevole vita in Europa e sogna ed idealizza la Palestina a distanza. Se fossero i Palestinesi a parlare delle loro sofferenze e speranze, credo che le opere sarebbero decisamente diverse. Dunque non si tratta di un’espressione artistica che proviene da chi qui ci vive e soffre, ma da persone esterne che ne hanno una visione ideologica ben precisa, che non so quanto corrisponda al sentire della gente del posto. Un’arte che sia espressione autentica della causa palestinese, dovrebbe essere realizzata direttamente dagli artisti palestinesi. Gli artisti che non vivono qui non possono in alcun modo rappresentare il sentire di chi vive direttamente questo dramma. Quasi per assurdo, quella barriera è diventata una sorta di vetrina espositiva dove ogni artista in cerca di fama può farsi notare a livello internazionale, ma in nessun caso voce autentica del popolo palestinese. Si veda ad esempio come il nome dell’artista napoletano Jorit Agoch sia venuto alla ribalta dopo esser stato arrestato dall’esercito israeliano per aver dipinto sul muro un enorme ritratto della giovane Ahed Tamimi, moderna icona della lotta palestinese.In seguito, cercando materiale su internet in vista di scrivere questo articolo, ho trovato diverso materiale che confermava le mie impressioni: sembrerebbe in effetti che l’artista britannicoBanksy sia stato criticato e che il suo albergo The Walled Off Hotel (con vista diretta sul muro) abbia suscitato polemica e malumore fra i palestinesi. L’albergo infatti, diventato immediatamente un’attrazione a livello mondiale, ha dato il via ad un rito che sembra, agli occhi di alcuni, banalizzare il muro della divisione creando quello che alcuni definiscono “il turismo dell’occupazione”: i turisti arrivano qui per vedere le opere diBanksy e lasciare un segno sul muro (vengono vendute bombolette spray e mascherine ai turisti che si vogliono cimentare in una improvvisata street art).
Wikipedia riporta a questo proposito un breve dialogo significativo avvenuto fra un anziano palestinese e l’artista Banksy:
Anziano: Dipingi il muro, lo fai sembrare bello.
Banksy: Grazie
Anziano: Non vogliamo che sia bello, odiamo questo muro, vattene.
Tuttavia, malgrado le polemiche, l’artista Banksy è riuscito a sensibilizzare l’opinione pubblica internazionale sulla questione del muro e ha stabilito che i proventi dell’Hotel vadano a finanziare altri progetti locali.
©Shazarahel
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