Ricordati che devi morire!

di Rita Belforti

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La notte baciò l’evanescente giorno con un sussurro.

“Io sono la morte, tua madre, da me tu ottieni una nuova nascita”.

Rabindranath Tagore

“Ricordati che devi morire!” tuonava solennemente il monaco, nel geniale film “Non ci resta che piangere”, rivolgendosi ad un ignaro Massimo Troisi che, catapultato da un sortilegio nel tardo Medioevo di Frittole, si ritraeva timoroso dalla finestra a cui era affacciato e rispondeva con deferenza “Mo’ me lo segno…”.

Ma come potersi dimenticare della morte, la “livella” del principe Antonio de Curtis, in arte Totò,  che appiana ogni tipo di diseguaglianza sociale o razziale esistente tra i vivi, riportando re, magistrati e grandi uomini alla dimensione di ogni essere vivente, che per il semplice fatto di essere nato, sa che un giorno dovrà imprescindibilmente morire?

Il tema della morte, per la sua assolutezza ed inintelligibilità ha catturato da sempre l’attenzione di molti ed è stato affrontato con angolazioni diverse da poeti, scrittori, artisti, musicisti, registi, filosofi e scienziati di ogni provenienza, nonché da tutte le religioni del mondo che ne hanno dato personali quanto variegate interpretazioni.

Fare ordine in mezzo a questa enorme quantità di dati è un compito da mal di testa, difficilmente esauribile in una relazione di poche pagine, ma potrei ritenermi soddisfatta se solo riuscissi a dare qualche risposta chiara a poche domande chiave, che rendano fruibili le informazioni di cui disponiamo e che contestualmente stimolino riflessioni personali in quell’area di confine dove il dato, da scientificamente certo, si apre ad infinite possibilità.

Cos’è la morte? Perché moriamo? Esiste l’immortalità? Come si raggiunge?

E’ opinione comune che la morte sia l’estinzione della vita, il suo opposto, la sua negazione. La linea di confine tra la vita e la morte appare come un muro che separa l’attimo in cui le funzioni vitali sono attive, da quello della loro cessazione definitiva, che divide il momento in cui l’orologio della vita scandisce i suoi minuti, da quello in cui esaurisce la sua carica e le lancette si fermano in un immobilismo irreversibile.

Il nostro corpo fisico ci dà una precisa sensazione di località. La sua natura tridimensionale spazio –temporale ci colloca in un luogo preciso in un determinato tempo, in accordo con le leggi del mondo fisico che ci ospita, cosicché nel corso della nostra vita sperimentiamo continuamente la percezione della posizione del nostro corpo e dei suoi spostamenti nello spazio in relazione allo scandire del tempo. Le frequenze del nostro corpo carnale derivano dalla vibrazione degli elementi chimici che compongono la materia vivente (carbonio, idrogeno, ossigeno e azoto), una vibrazione piuttosto lenta e densa, adatta alla comprensione di punti di riferimento come sopra e sotto, destra e sinistra, nord e sud che, per nostra convenienza, ci collocano appunto in uno spazio-tempo ben preciso e codificato.

Alla morte i nostri sensi ordinari perdono il contatto con la realtà fisica diventando sempre più deboli ed offuscati. Immagini, colori, sensibilità nervosa e tattile, odori  e suoni scompaiono uno ad uno, i recettori sensoriali si sconnettono dal mondo degli oggetti e non sono più in grado di trasferire al cervello informazioni ricettive da elaborare e restituire poi come sensazioni oggettive.

A differenza della nascita, la morte non viene considerata un miracolo dal comune sentire, perché mentre la prima esprime il prodigio di una nuova vita autonoma e completa che inizia a partire da una singola cellula fecondata che si divide più volte seguendo un programma di strabiliante precisione e coordinazione, la seconda pone termine a tutte le funzioni vitali per le quali la nascita ha combattuto faticosamente. La prima costruisce, la seconda demolisce, almeno materialmente parlando.

Si parla di “morte biologica” quando il tracciato del battito cardiaco si appiattisce e diventa immobile, gli alveoli polmonari non pompano più ossigeno, i cento miliardi di neuroni cerebrali interrompono le loro attività elettriche, le svariate migliaia di miliardi di cellule che compongono il corpo umano ricevono l’informazione che la loro missione è finita e nelle successive 24-48 ore i tessuti degenerano, ogni singola cellula muore e l’intero organismo arriva alla cosiddetta “morte assoluta”.

In una visione materialistica, che associa la vita esclusivamente al corpo fisico, la morte è l’oblio in cui tutto si dissolve, la linea del traguardo, il punto finale dell’esistenza e pertanto è un nemico da combattere, da esorcizzare, almeno da ignorare o comunque da allontanare il più possibile dal proprio orizzonte temporale.

La durata della vita dell’uomo è estremamente variabile ed è mutata enormemente nel corso della storia. Il capitolo 5 della Genesi descrive la posterità dei nostri patriarchi antidiluviani, uomini estremamente longevi, a partire da Adamo, che visse 930 anni, al suo primogenito Seth, che ne visse 912, a Enosh che morì a 905 anni, Kenan a 910 e via via fino a Methushelah che visse 969 anni e Noè 950. Già nell’epoca postdiluviana l’aspettativa media di vita cominciò a scendere e i patriarchi che coprirono il periodo che va dal diluvio ad Abramo ebbero vite generalmente più corte dei loro predecessori. Sem, primogenito di Noè, visse 600 anni, Scelah 433, Serug 230, Terah, padre di Abramo, visse 205 anni e Abramo stesso ne visse soli 175, un numero di anni comunque ben superiore alle nostre più rosee prospettive di vita!

Secondo il racconto biblico la riduzione della durata della vita è legata alla progressiva degenerazione dell’uomo, in senso fisico o morale non è molto chiaro. Quello che sappiamo è che Adamo ed Eva nel giardino di Eden vivevano in una condizione di purezza e innocenza assolute ed erano destinati all’immortalità, fino a che decisero consapevolmente di mangiare il frutto della conoscenza del bene e del male, facendo una scelta che li rese definitivamente mortali, ma che in cambio permise loro di beneficiare appieno del più grande dono che Dio aveva fatto all’uomo, il libero arbitrio. Grazie alla libertà di scelta essi diedero a sé stessi e di conseguenza a tutti noi, la possibilità di fare esperienze ed anche di sbagliare, per poter crescere in conoscenza allo scopo di ritornare, più evoluti, alla fine della nostra vita terrena lunga o corta che sia, alla nostra vera casa. La vita mortale è il tempo che ci è concesso per prepararci ad incontrare di nuovo Dio.

Nell’epoca moderna, a differenza dell’antico passato, la durata media della vita dipende principalmente dall’economia del Paese di appartenenza e dal proprio stato sociale. Ci sono profonde differenze fra paesi a basso, medio e alto reddito. Nei paesi ricchi la stragrande maggioranza della popolazione supera i 70 anni, mentre negli stati a basso reddito e con forti diseguaglianze sociali, meno di una persona su 5 arriva a 70 anni ed oltre un terzo di tutte le morti avviene in bimbi sotto i 15 anni.

Le principali cause di morte sono, nell’ordine, le ischemie cardiache, ictus e altre patologie cerebrovascolari, infezioni delle basse vie respiratorie (bronchiti acute, polmoniti, Bpco), virus Hiv, cancro, tbc, diabete ed incidenti stradali. Da non sottovalutare le cause iatrogene, cioè conseguenti a terapie mediche, che negli Stati Uniti rappresentano attualmente la terza maggiore causa di morte (fonte JAMA 284, 26 Luglio 2000).

L’invecchiamento biologico è tra i fenomeni più studiati degli ultimi 20 anni e le pratiche anti-aging per contrastarlo si sono moltiplicate velocemente nel nuovo millennio, suscitando un grande interesse medico-scientifico tra i ricercatori, ma anche un ghiotto stimolo economico tra gli operatori dei settori dell’estetica, della nutraceutica, della cosmeceutica, della endocrinosenescenza e di tutto il fiorente impianto del business di age-management (il sito Research and Markets stima questo mercato in 36 miliardi di dollari!), nonché una vivace curiosità opportunistica da parte di tutti coloro che intravedono in questo percorso la strada verso una più serena longevità e, perché no, verso il miraggio della sconfitta definitiva della morte.

Del resto, le moderne biotecnologie si sono date l’obiettivo del pieno controllo e dominio della materia vivente e promettono strabilianti successi nella riprogrammazione genetica degli organismi per esentarli da malattie e imperfezioni, siano essi ortaggi, cereali, oppure l’uomo.

Premetto che non è tra i miei desiderata avere un OGM (Organismo Geneticamente Modificato) nel piatto, né tantomeno diventarlo io stessa, per motivazioni che potrò solo accennare, ma vorrei provare a pesare la valenza di queste acquisizioni scientifiche alla luce delle loro finalità, del contributo reale e del valore aggiunto che esse possono dare alla nostra vita.

Non ho dubbi sul fatto che la ricerca scientifica abbia un valore inestimabile, che sia la massima espressione di libertà e di creatività dell’uomo, che esprima il suo migliore desiderio di conoscenza e di appartenenza, che debba essere promossa con tutti i mezzi a disposizione e sostenuta nei suoi aspetti di obiettività e imparzialità, se il suo fine è il miglioramento della vita dell’uomo, della società e la salvaguardia del pianeta e dei beni comuni.

Con questa precisazione, nella mia visione, tutto ciò può realizzarsi solo se nella mente del ricercatore è inciso a chiare lettere un assunto fondamentale che ne influenzi l’atteggiamento e l’approccio, e cioè che tutto ciò che la mente umana scopre, già esiste in Natura; che tutto ciò che l’intuizione e la deduzione di uno scienziato traducono in acquisizione scientifica, è paragonabile alla capacità di aprire gli scuri di una stanza buia per farvi entrare la luce e permettere così la visione del suo contenuto, dei mobili, dei tappeti, degli oggetti di arredamento, dei quadri appesi e perfino dei granelli di polvere nell’angolo tra le pareti. Era tutto lì, ma nessuno fino a quel momento era stato in grado di vederlo.

Scoprire è aprirsi alla consapevolezza di ciò che “è”, ma che non era stato ancora compreso. Ogni scoperta richiede un grado evolutivo. Dalla scoperta del fuoco fino al progetto genoma, alle cellule staminali o al Bosone di Higgs, l’uomo ha fatto prima di tutto un percorso evolutivo di sé stesso, della propria identità e della propria capacità di immaginazione, senza la quale nulla può essere esplorato e portato alla luce, creato, se vogliamo, ma con la cognizione, e questo è il punto, che il creatore del progetto universale non è l’uomo, o meglio, egli ne è il co-creatore, ma solo nel momento in cui riconosce di essere Uno con Dio e non un singolo isolato, di indossare la natura divina scritta nei propri geni e di non poter prescindere da questo collegamento, dalla matrice di coscienza collettiva, dalla fonte che ci rende un super-organismo di materia immersa nello Spirito di Dio e totalmente interconnessa grazie ad esso.

Questa premessa generale di metodo sulle acquisizioni scientifiche, mi permette di esprimere la personalissima opinione che mi sono fatta sul tema della ricerca per contrastare l’invecchiamento e prolungare le aspettative di vita dell’uomo.

Nonostante le molteplici teorie dell’invecchiamento già formulate nell’ultimo secolo (circa 20), quelle attualmente in studio ed i grandi progressi fatti dalla medicina d’avanguardia, ad oggi abbiamo un’unica certezza: invecchiare è un processo inevitabile.

I filoni portanti delle numerose teorie ufficialmente scientifiche, sono alla fine sintetizzabili in pochi gruppi di fenomeni biochimici che riguardano fondamentalmente l’accumulo o la riduzione/perdita di sostanze o di funzionalità biologiche, l’usura e la predisposizione genetica.

Si va dall’accumulo di radicali liberi che compromettono il metabolismo energetico delle cellule, danneggiando anche i mitocondri, all’accumulo negli anni di grandi quantità di scorie che le nostre cellule non sarebbero più in grado di smaltire o gestire. Fra questi rifiuti tossici sono incluse le tossine alimentari, i raggi ultravioletti da esposizione, le onde radioattive e ionizzanti.

L’influenza dell’alimentazione come concausa dell’invecchiamento emerge anche dalla teoria neuro-endocrina che sostiene come una scorretta alimentazione e integrazione in età adolescenziale sia responsabile nel tempo della perdita progressiva di alcuni ormoni come testosterone, GH, cortisolo ecc., indispensabili per molte funzioni vitali. L’alterazione della secrezione ormonale è associata anche alla perdita di funzionalità del timo, una ghiandola fondamentale per la regolazione endocrina.

Ancora l’alimentazione è coinvolta nella teoria dei cross-link, in cui l’eccesso di zuccheri (ad es. carboidrati) nel sangue si lega ad alcuni gruppi di proteine per glicazione avanzata, i cui prodotti finali favoriscono il danneggiamento tissutale e quindi l’invecchiamento.

telomeriLa perdita della capacità difensiva del sistema immunitario è un’altra delle teorie invocate. E poi ancora le teorie secondo le quali è la regolazione genica determinante in ciascun individuo per definire la velocità con cui avvengono le circa 50 replicazioni programmate che ogni cellula ha a disposizione durante la sua esistenza (per es. in 50 anni anziché in 100), fattore strettamente correlato con l’entità di accorciamento dei telomeri, le sequenze di acidi nucleici nella parte finale dei cromosomi che stabilizzano il DNA dopo ogni divisione cellulare. La lunghezza dei telomeri determinerebbe quanti cicli cellulari sono ancora a disposizione e dunque quanto tempo la cellula ha ancora davanti a sé prima della sua morte.

Si ritiene che la lunghezza dei telomeri sia predittiva sulle aspettative di vita. Persone che nascono con telomeri più corti pare abbiano una maggiore predisposizione all’invecchiamento e allo sviluppo di patologie neurodegenerative o cardiovascolari (uno studio pubblicato sull’American Journal of Epidemiology ha mostrato come telomeri più corti siano legati ad un maggior rischio di mortalità in un periodo di 6 anni), ma non ci sono prove in grado di confermare che a telomeri lunghi corrisponda una vita lunga e priva di malattie, anche perché questa ridondanza potrebbe essere del tutto inutile per la difesa da altre cause di invecchiamento.

Inoltre, è stato dimostrato che cambiamenti dello stile di vita, come per esempio un’alimentazione corretta, l’esercizio fisico moderato e la meditazione, sono in grado di aumentare l’attività della telomerasi, l’enzima che ripara i telomeri, rallentando   l’invecchiamento delle cellule.

Questo spunto mi è particolarmente caro per evidenziare come nel nostro organismo non ci sia mai nessun movimento di molecole organiche, attivazione di reazioni biochimiche, stimolazione di mediatori, ormoni, neurotrasmettitori e di ogni altro mattoncino che compone la materia vivente, che non sia spinto, indotto o indirizzato nella propria attività biologica da un primum movens, una causa prima, spesso di natura più sottile della materia, che esercita un potere forte su di essa e ne orienta le attività, a volte verso l’omeostasi delle funzioni organiche in un regolare ritmo circadiano di benessere ed altre volte invece verso un’alterazione dell’equilibrio attraverso la realizzazione di programmi biologici speciali e sensati, basati sulla necessità del momento di dare un certo tipo di risposta biologica, la cosiddetta malattia.

Dove vanno ricercate queste cause primarie? Di certo nel mondo del pensiero razionale o inconscio, che è in grado di attivare, attraverso gli stimoli percettivi provenienti dall’ambiente esterno, come immagini, suoni, colori, sapori, ecc. specifiche emozioni, vere e proprie molecole di emozioni, che agiscono sulla nostra biologia come oggetti reali, fungendo da ponte tra energia e materia, tanto da determinare cambiamenti fisici nelle nostre cellule e in tutto il nostro organismo.

In fondo non è difficile constatare l’esistenza di questi processi nella nostra esperienza quotidiana, dalle situazioni più banali a quelle più complesse. Pensiamo per esempio al rossore in volto determinato da una forte emozione di imbarazzo. E’ l’emozione stessa che attiva una reazione stimolando il lavoro ormonale, aumentando la velocità del sangue e provocando di conseguenza l’aumento della frequenza cardiaca e della pressione arteriosa. E cosa dire dell’incanutimento precoce dei capelli, a causa di stress o emozioni violente, che determinano un’improvvisa e totale perdita dello scambio enzimatico tra la tirosina e i melanociti del capello, privandolo del suo colore nativo?

Ma pensiamo anche ai casi più gravi e documentati in cui le intense emozioni di separazione e di perdita che accompagnano la vedovanza, provocano nel coniuge sopravvissuto un’accelerazione drastica dell’invecchiamento organico fino a cagionarne la morte dopo solo pochi mesi o addirittura giorni dalla perdita del proprio amato, del proprio punto di riferimento, se così era percepito.

Queste evidenze testimoniano come il primo vero responsabile del nostro equilibrio, dell’invecchiamento biologico e quindi della longevità, è in primis lo stile di vita, inteso come la scelta consapevole dei nostri comportamenti a seguito della comprensione profonda delle nostre potenzialità e quindi l’attivazione di quelle reazioni emozionali che, essendo in linea con la nostra specifica natura di essere unico e irripetibile, apportano alla nostra vita una valenza biologica costruttiva, che supera i condizionamenti sociali e le credenze, e ci accompagna in percorsi biologicamente utili verso un benessere durevole (un grande apporto in tal senso è dato dalla Medicina Biologica Emozionale® di Fabrizio Camilletti e della Dott.ssa Daniela Carini, che meriterà un approfondimento in articoli futuri).

Le recenti scoperte nel campo delle neuroscienze sulla plasticità del cervello e delle vie neuronali, che spiegano come le cellule cerebrali siano flessibili al cambiamento rispondendo alla volontà e all’intenzione, e quelle dell’epigenetica sui segnali in grado di modulare l’espressione genica (segnali come per esempio alimenti ed emozioni!), ci orientano sempre più al saldo convincimento che il nostro destino non è scritto nei nostri geni in maniera inderogabile, ma piuttosto che questi possono essere regolati, attivati o spenti, dagli stimoli che forniamo loro attraverso le nostre scelte. Come un libro scritto si presta a diverse letture a seconda delle variabili interpretative con cui viene letto, così il nostro DNA può accendere o smorzare porzioni della sua espressività in base agli impulsi con cui il modello viene interrogato. Questo processo, che ad oggi conosciamo solo per sommi capi, compreso nel profondo, attribuisce ancora maggior potere al libero arbitrio di cui godiamo grazie alla scelta fatta nel Giardino di Eden dai nostri antenati con tanta lungimiranza.

Viceversa potremmo pensare che il nostro organismo sia semplicemente una macchina fatta di tanti ingranaggi che col tempo e l’usura si deteriora, accumula rifiuti e scorie, alcuni pezzi si rompono, anche a causa di difetti di fabbrica (per es. geni indesiderati precorritori di malattie) e tutto ciò la porta inesorabilmente e senza appello al decadimento organico e alla morte per esaurimento funzionale, a meno che, secondo questa linea di pensiero, non si intervenga con delle revisioni periodiche, come quelle che si fanno alle automobili, attraverso operazioni di micro-ingegneria avanzata in grado di ripristinare le funzioni vitali e prolungare così la vita della nostra macchina-uomo per un tempo indeterminato. La corsa verso l’immortalità punta sullo sfruttamento delle più moderne acquisizioni della rivoluzione biotecnologica in atto in questi anni, in una “anti-aging road” fatta di cellule staminali, di clonazione a scopo terapeutico, di tecnologia genetica ricombinante, di informatizzazione della biologia che penetra nelle dinamiche cellulari più intime, di nanotecnologie che promettono la riparazione a livello atomico dell’organismo umano e di intelligenza artificiale a cui delegare la modulazione di determinati geni, creando a proprio piacimento proteine specifiche, o addirittura l’eliminazione selettiva di alcuni di essi.

Un guru del settore è il biochimico e gerontologo inglese Audrey de Grey, direttore scientifico della Metuselah Foundation, che ha recentemente formulato un progetto di ricerca, chiamato “Strategie per una senescenza negligibile ingegnerizzata” (SENS), che egli ritiene possa ridurre la fragilità umana e la tendenza a contrarre malattie mortali. De Grey paragona il corpo umano proprio ad  auto d’epoca, le quali possono essere sottoposte a periodica manutenzione allo scopo di tenerle in perfette condizioni anche a 100 anni dall’uscita dalla fabbrica. Il suo programma di ricerca parte dal presupposto che l’invecchiamento è un accumulo di “lesioni” molecolari e cellulari di varie tipologie e che mentre una modesta quantità di lesioni non costituisce un problema per il nostro metabolismo, così come una famiglia può gettare i rifiuti una volta alla settimana e non ogni ora, un accumulo in eccesso non è invece sostenibile e provoca la progressiva diminuzione dell’efficienza dell’organismo e la sua incapacità di difendersi dalle malattie. L’esito ultimo di tale accumulo è, secondo de Grey, la morte.

La sua ricetta propone di mantenere permanentemente l’importo totale delle lesioni nelle varie categorie sotto il livello che innesca il declino funzionale, attraverso un insieme di terapie, da fare periodicamente a partire dall’età adulta, che ripari tutte le lesioni causate dall’invecchiamento. Per risolvere ad esempio il problema dell’eccesso di cellule di grasso e/o senescenti, queste verrebbero rimosse iniettando delle tossine che spingono le cellule in questione al suicidio o stimolando il sistema immunitario ad aggredirle, per eliminare la spazzatura extracellulare (la placca lipidica arteriosclerotica e le proteine amiloidi, responsabili dell’Alzheimer) si farebbe ricorso alla fagocitosi attraverso stimolazione immunitaria, per la spazzatura intracellulare dovuta all’incapacità del lisosoma (il “sistema digerente” della cellula) di degradarla, all’idrolisi microbica transgenica, per le mutazioni del nucleo cellulare (che avvengono per esempio nel cancro) si interverrebbe sulla inibizione totale della telomerasi delle cellule maligne, per sostenere una carenza del sistema immunitario, si indurrebbe la timopoiesi mediata dalla interleuchina 7, la perdita e/o atrofia delle cellule (nel tessuto cardiaco e cerebrale e nei muscoli) potrebbe essere rimediata iniettando fattori di stimolo della divisione cellulare o mediante terapia a base di cellule staminali, e così via. Ad oggi non ci sono però evidenze che qualcuno di questi approcci sia in grado di prolungare la durata della vita di qualsiasi organismo vivente, anche non umano.

Non voglio dare l’impressione di denigrare queste avanzatissime acquisizioni scientifiche, che ritengo anzi, grandiose, ma ne faccio più che altro una questione di metodo, rifacendomi in parte a quanto introdotto più indietro sui “primum movens” dello stato di salute/malattia dell’uomo.

Il grosso limite del meccanicismo, e le biotecnologie ne sono un esponente massimo, è la separazione. Avere come oggetto di ricerca esclusivamente il corpo fisico significa prendere in considerazione solo un aspetto dell’uomo, tra l’altro quello più “separato” del nostro sistema del sé. Senza una visione olistica del nostro organismo, con le sue componenti fisica, energetica e spirituale, integrate tra loro ed interconnesse con l’ambiente circostante, inclusa la mente collettiva, e senza tener conto del grado di complessità e variabilità del sistema, nonché dell’unicità dell’individuo e della sua coscienza biologica, qualsiasi ipotesi o strategia di intervento su di esso è parziale, mutilata e a mio avviso, molto rischiosa. Se questa strategia è protocollabile in termini standard e non personalizzata per ogni singolo individuo, non può rispondere ad un’esigenza evolutiva degna della nostra Natura.

Personalmente rifiuto l’idea che il “sapere” scientifico avanzato si arroghi di diritto il titolo di programmatore e riparatore biotech ultra-specializzato, magari con progetti brevettabili, delle zone erronee umane, pronto ad intervenire contro ogni guasto biochimico o presunto difetto genetico, senza nemmeno considerare la possibilità di educare l’individuo all’ ”essere”, a mettersi in gioco personalmente, ad agire, con comportamenti virtuosi e scelte consapevoli che gli riconoscano quel potenziale evolutivo che può guidarlo verso l’autoguarigione, non solo del fisico, ma anche del profondo sé e nello stesso tempo lo rendano consapevole dei propri limiti. Avere dei limiti di durata nella permanenza terrena non è un vero limite, è piuttosto un’opportunità. Ci insegna per esempio a usare bene il nostro tempo e a non rimandare troppo ciò che abbiamo da fare per prepararci a continuare la nostra esperienza di anima immortale.

Viaggia sulla rete una parabola molto antica, di quando Dio viveva sulla terra, che esprime con un’allegoria proprio ciò che penso.

Un giorno andò da Dio un uomo, un vecchio contadino, e gli disse: “Senti, sarai anche Dio, e avrai anche creato il mondo, ma una cosa voglio dirtela: non sei un agricoltore e non conosci neppure l’ABC dell’agricoltura. Devi imparare qualcosa”.
Dio chiese: “Cosa mi consigli?”
E il contadino rispose: “Dammi un anno di tempo, e lascia che le cose vadano come dico io, vedrai cosa succede. Non ci sarà più miseria!”
Dio accettò e concesse un anno al contadino. Naturalmente, questi volle il meglio – pensò solo a ciò che era meglio per lui – per cui non ci furono tuoni, né venti selvaggi, né altri pericoli per il raccolto. Tutto era confortevole e tranquillo, e l’uomo era felice. Il grano cresceva altissimo! Quando il contadino voleva il sole, c’era il sole; quando voleva la pioggia, pioveva… nella quantità necessaria. Quell’anno tutto andò a meraviglia, tutto fu studiato matematicamente. Ma all’epoca del raccolto, le spighe risultarono vuote.
Il contadino era sorpreso e chiese a Dio: “Cos’è successo? Cosa non è andato per il giusto verso?”
Dio disse: “Poiché non c’è stata alcuna sfida, non c’è stato alcun conflitto, nessun attrito, poiché hai evitato tutto ciò che era cattivo, il grano è rimasto impotente. Un po’ di lotta è necessaria. Ci vogliono temporali, tuoni, lampi: essi scuotono l’anima all’interno del grano”.

Se comprendiamo il senso della vita, non abbiamo bisogno di sconfiggere la morte. Il nostro corpo fisico, essendo vincolato al tempo, dovrà inevitabilmente morire, ma dopo la morte, appena smetteremo i panni di esseri locali, la percezione della materia solida lascerà il posto ad un’altra prospettiva: essere ovunque allo stesso tempo. Questo non significa spostarsi in un altro luogo o in un altro tempo, ma spostare piuttosto la nostra attenzione su altri aspetti del nostro sé, quelli più sottili, ma altrettanto reali e certamente più adeguati alla nuova condizione in cui ci troveremo.

E’ molto difficile concepire tutto questo mentre siamo limitati dai confini del nostro perimetro fisico e in un tempo lineare, ma più la nostra visione sarà senza limiti e più noi saremo reali.

Saltando di livello non avremo più bisogno di ciò che ci ancorava al livello precedente, vale a dire di agire fisicamente per “afferrare” qualcosa come il cibo, il denaro, le nostre proprietà, lo stato sociale, o di “trattenere” qualcosa come la bellezza, il fascino, la giovinezza.

Forse per qualcuno può risultare traumatico il solo pensare di dover rinunciare un giorno a quelle espressioni dell’ego personale che permettono di esplorare il nostro attuale spazio attraverso le esperienze della forza fisica, della sessualità, del potere, dell’autorità o della ragione, ma non considerano che dopo la morte ci può essere una vita fatta di pura esistenza, svincolata dai cinque sensi, in cui l’ ”essere” è l’esperienza che le racchiude tutte, in cui ogni cosa o evento esiste in forma potenziale, in cui possiamo manifestare al massimo il potere creativo come avviene nel sogno, in cui qualsiasi cosa è possibile, senza le limitazioni fisiche del mondo “reale”.

Questo è il potere della mente, quell’enigma metafisico che la concezione materialista confina all’interno del cervello, ma che sempre maggiori evidenze scientifiche collocano al di fuori di esso, nel campo informativo o Campo di Punto zero che permea tutto l’universo invisibile e che i fisici credevano “vuoto”. Esso contiene invece una quantità di energia enorme, di molto superiore a quella di tutto l’universo visibile, sotto forma di informazioni. Queste informazioni proiettano il mondo materiale e fungono da vero e proprio ponte tra la mente e la materia.

I neuroni nascono e muoiono, il cervello, come il resto del corpo nasce e muore, ma le informazioni non possono essere né create né distrutte. La mente collettiva è il deposito in cui vengono condivise tutte le informazioni universali e comprende in sé le menti individuali, come un infinito datacenter dove vengono allocate porzioni di memoria che fanno riferimento a tutti i dispositivi periferici collegati. Se un computer locale si rompe, perderà la capacità di accedere all’unità di memoria centrale, ma non verrà perso nemmeno un bit delle informazioni alle quali accedeva attraverso le sue credenziali, perché esse risiedono nel datacenter.

Così se un individuo muore, perderà le connessioni fisiche sensoriali e il suo involucro restituirà le particelle elementari di cui è composto (carbonio, ossigeno, azoto e idrogeno) al mondo della materia, al terreno, agli alberi, all’aria e all’acqua, che sono fatti delle stesse sostanze, ma le sue memorie cellulari, uniche e irripetibili, diverse da qualsiasi altro individuo al mondo, rimarranno memorizzate nel campo, a disposizione di altre cellule viventi e di altri cervelli, che le potranno richiamare ed attivare, in un esempio sublime di cooperazione universale.

Questa incredibile quantità di informazioni è infatti una fonte di input, di segnali virtuali che grazie alla mediazione del cervello che li riceve, si trasformano in attività cerebrale vera e propria, neuro trasmessa e neuro modulata, in grado di modificare chimicamente le cellule e influenzare l’intera biologia del corpo umano.

Allora, in conclusione, quello che penso è che se provassimo a prendere in considerazione molto più seriamente le risorse della mente e la loro influenza sulla biologia cellulare, anziché investire tutto sulla manutenzione meccanica del cervello e sulla riparazione delle cellule a valle, con il rischio di intervenire maldestramente sugli equilibri di un ecosistema molto più esteso e complesso, il concetto di terapia medica potrebbe assumere un significato assai diverso da quello attuale.

Con la consapevolezza di chi siamo, del perché viviamo determinate esperienze e con la piena coscienza del nostro potenziale creativo, potremmo garantirci uno stato di salute e di benessere autoindotto fino al momento della morte, accogliendola poi con un sereno senso di normalità e con la consapevolezza che anche la morte è un miracolo, è l’evento creativo di un nuovo stato vibratorio, di un nuovo presente, di una nuova emozione, di un nuovo tessuto, di un nuovo universo che si ricrea continuamente, rinnovandosi.

Ricordati che devi morire…  Mo’ me lo segno, e ringrazio!

 

6 risposte a Ricordati che devi morire!

  • Hermana Luna scrive:

    Concordo con tutto quanto hai scritto in questo articolo, e anche se non m’intendo di genetica, il tuo modo di scrivere è così limpido che … persino io ho capito!!
    E inoltre non credo potessi spiegarlo meglio di così il fatto che alla fin fine tutti siamo Uno: “I neuroni nascono e muoiono, il cervello, come il resto del corpo nasce e muore, ma le informazioni non possono essere né create né distrutte. La mente collettiva è il deposito in cui vengono condivise tutte le informazioni universali e comprende in sé le menti individuali, come un infinito datacenter dove vengono allocate porzioni di memoria che fanno riferimento a tutti i dispositivi periferici collegati.”
    A proposito di questo, quando un caro (che sia un familiare o un amico) ha lasciato questa dimensione fisica con il suo corpo materiale, “non so perché” ma spesso mi capita di vederlo in qualcun altro o qualcos’altro (…) ed è una sensazione forte che non riesco a mettere nel “reparto immaginazione” ma piuttosto la metto nel “reparto realtà non-visibile”.
    E ovviamente condivido molto anche questo tuo passaggio estrapolato dall’articolo: “Se comprendiamo il senso della vita, non abbiamo bisogno di sconfiggere la morte. Il nostro corpo fisico, essendo vincolato al tempo, dovrà inevitabilmente morire, ma dopo la morte, appena smetteremo i panni di esseri locali, la percezione della materia solida lascerà il posto ad un’altra prospettiva: essere ovunque allo stesso tempo. Questo non significa spostarsi in un altro luogo o in un altro tempo, ma spostare piuttosto la nostra attenzione su altri aspetti del nostro sé, quelli più sottili, ma altrettanto reali e certamente più adeguati alla nuova condizione in cui ci troveremo.”
    E ora per salutarti non posso che usare un vocabolo indu che racchiude reverenza alla persona a cui ci si rivolge e … al suo sé superiore 🙂
    Namaste’

    • Rita Belforti scrive:

      Ti ringrazio di cuore per il bellissimo commento. E’ una grande gioia sentirsi in sintonia e condividere una parte di ciò che siamo. E’ ora il tempo di risvegliare le coscienze e consapevolizzare il nostro potenziale e Madaat è uno degli strumenti che darà un prezioso contributo in questo!

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