Arte e legge ebraica
L’ebraismo ha avuto un rapporto problematico con l’arte e questo per la norma che proibisce l’uso di raffigurazioni nel culto: tuttavia, secondo l’opinione più restrittiva, è proibito l’uso tout court di immagini realmente esistenti in ogni manifestazione della vita umana, dato che ogni momento della vita va vissuto sub specie religionis. Non mancano artisti ebrei che hanno prodotto importanti opere artistiche, specie nel mondo dell’arte pittorica espressionista non figurativa, forse per l’influenza delle proprie origini ebraiche. Ma l’atteggiamento della tradizione ebraica, che è fondamentalmente iconoclasta, ha fatto sì che l’arte che possiamo considerare propriamente ebraica si è sviluppata in direzioni diverse da quella occidentale.
La halakhà è l’insieme delle norme che regolano ogni comportamento e ha trovato la sua espressione nei testi classici della giurisprudenza ebraica: nell’ebraismo tutto rientra sotto il suo controllo anche i modi attraverso cui si esprime l’arte. A volte, accanto alla norma fissata, si sono sviluppate consuetudini (minhaghim) che, pur non rientrando pienamente nella norma, finivano per essere tollerate e accettate in quanto entrati a far parte del costume e dell’uso comune.
L’arte ebraica in senso stretto si è sviluppata in due settori che hanno interessato la halakhà:
a) La costruzione del Santuario (il Tabernacolo nel deserto, il Tempio di Salomone, la sinagoga);
b) L'abbellimento degli oggetti di culto.
Abraham Joshua Heschel mette in evidenza come l’ebraismo, a differenza del cristianesimo e di altre culture e civiltà, abbia costruito “cattedrali nel tempo” e non “cattedrali nello spazio”: è questo il motivo per cui l’ebreo non si è interessato alla costruzione di oggetti e di idoli che occupano un certo spazio e che hanno un valore a se stante, ma piuttosto nell’abbellire gli oggetti che fanno parte integrante del culto. L'architettura si trasforma così in una mitzvà - un precetto positivo - quando si parla della costruzione del Tempio e l'artigianato acquista un significato religioso, quando viene applicato alla tessitura e al ricamo degli oggetti usati nel Santuario.
La fonte fondamentale sulla quale la halakhà si basa per definire l'attività artistica è la seguente:
E' stato insegnato: "questo è il mio D-o e io lo abbellirò" (Esodo, 15: 2) - renditi bello di fronte a Lui quando esegui i precetti, fai una bella sukkà (capanna), fai un bello shofàr (corno di ariete), un bel tallèth (vestito a frange per le preghiere), un sèfer torà bello e scrivilo con del bell'inchiostro, con una bella penna, fallo scrivere da uno scriba esperto e rivestilo con della bella seta (shabbàth 133b).
Secondo alcuni l'hiddur mitzvà (l’esecuzione di un precetto in un modo estetico) può essere considerato una legge della torà, mentre secondo altri sarebbe una legge di origine rabbinica: in ogni caso l’applicazione della norma limita le azioni che all'uomo sono consentite nel campo dell'arte. In Italia, paese in cui per tradizione e per cultura l'arte e il bello hanno sempre avuto un notevole peso, gli oggetti liturgici e le sinagoghe spesso rispondono a canoni estetici particolarmente elevati.
Tra l’uomo e la donna, è quest’ultima che ha assunto un ruolo importante nel campo delle espressioni artistiche: infatti essa è esentata da un’ampia categoria di precetti che sono invece obbligatori per l'uomo e ha quindi una quantità maggiore di tempo da poter dedicare ad esprimere la propria sensibilità religiosa attraverso l’arte.
Dal momento in cui l’arte diventa oggetto dell’halakhà, è immediatamente soggetta a limitazioni precise che riguardano due ambiti fondamentali: quello dell'idolatria e quello dell'erotismo.
Per quanto riguarda la prima, il divieto di ‘avodà zarà (culto estraneo, idolatria) è uno dei principi cardinali dell'ebraismo ed è incluso nei Dieci Comandamenti. La proibizione di fare idolatria rientra nei Sette precetti di Noè, le leggi cui, secondo i Maestri, sono sottoposti tutti i discendenti di Noè (quindi tutta l’umanità): questa legge va intesa in maniera meno restrittiva rispetto a quella dell'ebraismo, per il quale vale la proibizione rigorosa di non farsi alcuna immagine.
Le immagini di D-o - in qualsiasi forma esse siano - sono proibite: tuttavia i Maestri discutono se la proibizione di fare immagini dell'uomo vada applicata anche nel caso in cui l'immagine non sia completa, ma monca, per esempio mancante di un occhio o altro. Così pure discutono se la proibizione riguardi le immagini in rilievo o tutte le immagini, comprese le semplici raffigurazioni e le immagini ottenute per intarsio. In pratica viene permessa l'arte della fotografia e del disegno, anche se non mancano quanti, per motivi mistici, tendano a proibirle.
Il secondo gruppo di divieti riguarda il campo erotico. I riti della fertilità, così in uso nel mondo cananeo e nel mondo classico greco - romano, hanno certamente avuto la loro influenza nell'atteggiamento sia della Bibbia che dei testi canonici successivi, che stabiliscono limiti precisi a un uso dell'arte, quando questa può sollecitare istinti erotici.
A queste due categorie di divieti se ne possono aggiungere altre "minori" legati alla distruzione del Santuario di Gerusalemme: l'obbligo di lasciare qualcosa di incompiuto nella costruzione di una casa, l'invito a non fare uso della musica per accompagnare il canto “sacro”, come già riecheggia nelle parole del salmo 137: " Come potremo cantare i canti del Signore su una terra straniera".
Un altro importante concetto che la halakhà applica a chi intende occuparsi di arte è quello di devarim betelim oppure bittul torà, cioè perdere il proprio tempo per dedicarlo a cose inutili. La halakhà distingue tra due tipi di azioni: una chiamata reshùth, permessa, che comprende l’attività che svolge l'uomo per guadagnarsi il pane: è quindi permesso occuparsi di arte, ma solo nella misura in cui questa può essere necessaria per provvedere alle necessità materiali della sopravvivenza. L'uomo deve dedicare la maggior parte del proprio tempo, il giorno e la notte, allo studio della Torà. In effetti se scorriamo la storia del popolo d'Israele fino alla rivoluzione francese - che ha costituito un momento di progressivo allontanamento dallo studio e spesso dall'applicazione della Torà - non v'è dubbio che queste limitazioni (la proibizione di fare idolatria, la proibizione di fare immagini che possono sollecitare atteggiamenti erotici, il lutto per la distruzione del Tempio) hanno avuto un'influenza determinante nello sviluppo o non-sviluppo dell'arte ebraica, anche se naturalmente non mancano le eccezioni. Ora, poiché la donna può astenersi dallo studio della Torà, se questa non è strettamente legata a una migliore osservanza dei precetti, si capisce perché le donne abbiano avuto e possono continuare ad avere un ruolo importante e determinante nello sviluppo dell’arte ebraica (si veda ad esempio il ruolo avuto dalle donne nella costruzione del Tabernacolo nel deserto dopo l’uscita dall’Egitto).
Più in generale, dal punto di vista del pensiero ebraico e dell'atteggiamento che l'artista assume di fronte alla sua opera, si può ancora aggiungere che i Maestri hanno guardato all’arte con riserva, in quanto l'artista con la sua creatività tende a sentirsi e quasi a sostituirsi a Dio: quindi egli deve sentire la propria opera come completamento dell’opera della creazione divina.
Un concetto fondamentale per capire e per giudicare poi l'arte ebraica è quello che i Maestri chiamano il fare un’azione leshèm shamàim, cioè per uno scopo celeste: ogni azione e quindi anche quella artistica deve avere uno scopo superiore, divino, non deve avere uno scopo egoistico, personale. In questo rientra evidentemente il concetto già citato dell'abbellimento estetico della mitzvà.
Occuparsi della Torà e del suo studio è per l'uomo della halakhà un'attività superiore a quella dell'artista. L'uomo deve dedicare il suo amore e la sua passione, innanzi tutto, alla Torà, un amore che può raggiungere quasi vette erotiche, così come troviamo nel Cantico dei Cantici che, secondo la tradizione, è una rappresentazione della storia d’amore tra il popolo d'Israele e D-o.
A partire da quanto su esposto, si potrebbe forse concludere che la halakhà abbia sempre e comunque un atteggiamento negativo verso l'arte. In realtà non è così: la halakhà non vuole negare un ruolo all'attività artistica, ma intende stabilire delle priorità. Così come le norme che vietano il consumo di certi alimenti non significano che la Torà sia favorevole all'ascetismo, così pure la Torà non intende in nessun caso negare valore ai piaceri del mondo (e tra questi anche all'arte): essa intende invece stabilire delle priorità e quello dello studio della Torà e della sua corretta applicazione sono, in assoluto, prioritari rispetto alle altre attività:
"Chi cammina per strada e sta studiando e interrompe il suo studio e dice: Quanto è bello quest'albero, quanto è bello questo solco, il testo lo considera come se avesse danneggiato irrimediabilmente la propria persona".
La vita e la sopravvivenza del popolo ebraico è sempre stata basata sulla Torà e anche quando ha trovato le sue espressioni nel mondo dell'arte, quest'ultima trovava la sua giustificazione solo nella misura in cui poteva alimentare questa vita e concorrere a un'applicazione più dignitosa della sua tradizione e della sua missione.
Rav Scialom Bahbout
kabballart@gmail.com
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