Docile e impudente audacia ebraica

 

Poiché qual’ è il popolo così grande da avere vicine le proprie divinità così come H’’ nostro D’ lo è ogni volta che lo invochiamo ?

(Dt 4,7)

 

Se c’è una cosa che contraddistingue il popolo d’Israele da tutti gli altri popoli è proprio il tipo di relazione che egli  ha instaurato con il Suo D’: nel moderno stato d’Israele la Torah fa direttamente o indirettamente parte integrante della vita quotidiana dei cittadini; in Israele D’ è per tutti, credenti e meno credenti, il Padrone di casa al quale ci si rivolge con una confidenza che ai non-ebrei a volte suscita stupore, se non scandalo. Una delle accuse che ci vengono fatte è che “gli ebrei mettono D’ da ogni parte!”. Questo modo familiare di rivolgersi a D’ denota il tipo di relazione che l’ebreo ha nei confronti dell’assoluto. L’ebreo, a causa della sua elezione e del suo passato storico, non intrattiene con la divinità un rapporto distante di Creatore-creatura, ma un rapporto intimo a tu-per-tu come quello di Padre-figlio, Marito-moglie…
Questa intimità spesso tocca punte di un’arditezza e libertà tali da sembrare persino blasfeme. L’ebreo rifiuta un atteggiamento di passiva sottomissione al “fato”, sa porre domande a D’ e spingersi fino alle estreme conseguenze di esse; sa umilmente sottomettersi alla volontà di D’, anche quando è troppo esigente, ma allo stesso tempo sa anche dimostrare apertamente il suo disappunto, presentare a D’ le sue proteste e permettersi anche di litigare con Lui senza paura di offenderlo, e senza timore di fra crollare le consolidate impalcature teologiche che non fanno che aumentare la distanza dell’uomo dalla sorgente di ogni bene.
La preghiera ebraica è aliena all’etichetta e non assume nessun codice di comportamento formale mirato a mascherare la misera realtà umana: la sinagoga non è un luogo sacro dove solo si prega, in sinagoga si studia Torah, si danza, si parla, si mangia, si urla a D’ la propria gioia o il proprio dolore, si discute con i fratelli e a volte persino si litiga!! L’ebreo si permette questa libertà perché ama il suo Creatore e sa di essere da Lui eternamente amato così com’è con i suoi pregi e difetti, non ha bisogno di recitare un ruolo, può permettersi di rimanere autenticamente se stesso in sinagoga così com’è nella vita di tutti i giorni.

Pubblichiamo un racconto hassidico che illustra molto bene questo tipo di relazione confidenziale tipicamente ebraica.

Si racconta che, durante il mese terribile di Av, il Grande Magghid rabbi Dov Baer di Mezrich si rivolse al suo giovane discepolo reb Elimelekh di Lizensk e gli chiese se conosceva il senso profondo di Rosh Hashana (=capodanno ebraico).

- No, rispose il discepolo. Non lo conosco. In realtà non conosco il senso profondo di nulla.

- Ti piacerebbe apprenderlo?

- Fosse vero, rabbi. Me lo insegni. Proprio per questo sono venuto a Mezritch. Per comprendere quello che faccio, chi io sia.

- Bene, disse il Grande Magghid. Va’ a Zhitomir. Fermati nel villaggio vicino alla foresta. Trovererai facilmente la locanda, ce n’è una sola. L’oste ti svelerà il significato profondo di Rosh Hashana.

Senza perdere un minuto, reb Elimelekh lasciò Mezritch, prese la strada per Zhitomir e si fermò al villaggio presso la foresta. Trovò la locanda, incontrò l’oste e subito pensò che il Magghid l’aveva dovuto indirizzare da un Giusto veramente nascosto. Infatti costui non aveva per nulla l’aria d’uno che potesse insegnargli anche la più elementare preghiera d’ogni giorno. Era un oste fatto e finito, si comportava da oste e si esprimeva da oste, tutto occupato com’era a servire gli avventori, a bere con loro e a ridere con gli ubriachi. “Riesce a camuffarsi a meraviglia”, pensava Elimelekh.
Il giovane si fermò una notte, si fermò tre notti.
Spiava l’oste. Sperava di sorprenderlo a mezzanotte, quando tutti i mistici piangono sulla distruzione del Tempio. Fatica sprecata: quel brav’uomo dormiva placidamente.
Al mattino l’oste si alzava, biascicava in fretta e furia le preghiere, ingoiava la colazione come aveva fatto il giorno prima e, certamente, la settimana prima. Poi si metteva al lavoro. Scopava l’osteria, ordinava le sedie, lavava i bicchieri, e aspettava il primo vetturino per trincare con lui. Ma reb Elimelekh non si perdeva d’animo. “Il Magghid m’ha indirizzato qui,e io devo venirci”, pensava. “Il Magghid sa quello che fa. Forse dovrei fermarmi per lo shabbat (=sabato). Nella luce e nella purezza dello shabbat l’oste non potrà più nascondersi e sarà forzato a mantenere la promessa del Magghid”.
Passò, dunque, lo shabbat all’osteria ma non accadde niente, salvo che, in onore dello shabbat, l’oste mangiò senza fretta e dormì a lungo. Allora Elimelekh cominciò ad agitarsi. “Perché sono venuto qui?”, si chiese. “Perché non ho udito le parole che m’erano destinate? Forse perché non ne sono degno? È colpa mia se l’oste è rimasto oste?”.
Col cuore amareggiato, reb Elimelekh decise di ritornare a Meztritch per Rosh Hashana e s’affrettò ad avvertire l’oste. Lo cercò su e giù per la casa ma non lo trovò. Finalmente lo scovò in un angolo della cucina che armeggiava davanti a due quaderni e mormorava:

- Presto sarà Rosh Hashana. È tempo, Signore dell’universo, che tiriamo le somme, non ti pare? Apriamo il primo quaderno; vi ho notato tutto quanto ti devo. Dunque, vediamo. Ho lasciato passare le feste di Simhat Torah senza una ‘alyah (=salita alla lettura della Torah) : ho sbagliato; in un giorno simile il posto di un’ebreo è fra gli ebrei. Ti debbo una ‘alyah. Continuiamo. Il mese dopo, ho dimenticato di recitare la preghiera di minhah. Bene, ti debbo una preghiera. E poi? Poi non ho voluto dare da mangiare a un mendicante. Che vuoi, ero troppo occupato. Ti debbo anche un pasto. Volgiamo pagina: il giorno di Tisha beAv ho interrotto il digiuno, ho bevuto un bicchiere, ma non  en potevo fare a meno. Tu conosci bene il signore del villaggio, quando s’arrabbia ammazza; e stava proprio arrabbiandosi perché mi rifiutavo di bere con lui. Allora ti debbo un bicchiere. Poi ti debbo una elemosina e un dono per Shimon, l’orfano, e per Rahel che sta per sposarsi…Ma adesso apriamo il secondo quaderno, permetti? Ho segnato tutto quanto mi devi. Ecco qui: mio cugino, innocente, messo in prigione, e Tu hai lasciato fare. Perché non Ti sei opposto? Mi devi trentadue giorni di prigione…Cinque settimane dopo, sua moglie s’è ammalata. Perché  l’hai fatta ammalare, Signore dell’universo? Mi devi la sua malattia…Lo stesso mese, il figlio di Jankel è stato bastonato dal signore del villaggio: perché non l’hai protetto? Tu mi devi tre costole rotte…Volto pagina e leggo che alcuni disgraziati teppisti hanno incendiato la sinagoga di Pesinka, dopo aver stracciato i rotoli sacri e assassinato il povero reb Iddel, lo scaccino: mi devi l’onore della Torah, la bellezza della Torah, e più ancora, Signore dell’universo, mi devi rab Iddel…Non c’è che dire, mi devi molto. Veniamo al dunque. Come la mettiamo con nostro dare e avere?

L’oste prese la testa fra le mani per riflettere meglio. Poi ebbe un’idea:

- Ebbene, ti voglio fare una proposta: tu non mi devi nulla e io non ti devo nulla, pari e patta, diciamo. Ti va?

Reb Eliemelekh rientrò a Mezritch e si presentò al Magghid il cui viso si illuminiò d’un sorriso misterioso.

- Com’è andata? Ora tu sai?

- Sì, disse il discepolo, ora so.

- E sei d’accordo?

- Sì, disse reb Elimelekh. Sono d’accordo.

- Allora anche il Creatore è d’accordo.

Non io, dice il narratore della storia. Non io.

 

Il senso di questo racconto non è quello di invitare a trascurare l’osservanza dei comandamenti, ma piuttosto suggerisce l’atteggiamento da adottare nel praticarli: i comandamenti, le mitzvot non devono essere osservate per il timore della punizione né per il desiderio della ricompensa, ma semplicemente per amore. E nell’amore autentico non si teme di mostrarsi all’amato per quello che si è, in tutta la verità del proprio essere.

 

 

 

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